Perché il teatro?

Perché il teatro?
Qualcuno ogni tanto mi chiede “Perché fai teatro?” ed ammetto che qualche volta me lo domando anche io ed ogni volta la risposta è sempre la stessa pur essendo sempre diversa. Tuttavia, essa è sempre e comunque insita nella domanda stessa, tutta concentrata e condensata nel termine stesso “teatro”.
La parola “teatro” deriva dal verbo greco θεαομαι, “guardare, osservare”, ma nella sua accezione più completa, il termine “teatro” indica il guardare, l’osservare l’uomo che, indossando una maschera, diventava un dio. Quindi, sin dai suoi albori, nella parola “teatro” si nasconde una scintilla divina che conduce ad un luogo di incontro tra l’elemento umano e quello divino. In questa sua “primitiva” forma, il teatro era un ponte, e lo è tuttora, tra mondi diversi che forse non si sarebbero mai incontrati diversamente. Inoltre, il carattere catartico, purificante, di quest’arte si è subito palesato con veemente chiarezza, tanto che nell’antica Grecia, i lungimiranti governanti ne promuovevano la diffusione cosicché anche il popolo illetterato ed incolto potesse trarre giovamento dall’ “osservare” gli uomini mascherati da dei, le loro storie e tutto ciò che avveniva tra l’orchestra e la schené.
Ma perché tutto questo dovrebbe rispondere alla domanda “perché fai teatro”? Cos’ha a che fare tutto ciò con noi, oggi? Beh, è presto detto: perché nonostante tutto ciò abbia almeno qualche migliaio di anni, nulla è cambiato. La scintilla divina del teatro arde ancora e balena in ogni platea o galleria o fila di poltrone, panche, sedie, cuscini poggiati sulla nuda pietra. La sua eco catartica ancora riverbera, immutata, nelle orchestre come sui microfoni panoramici, le “pulci” e gli amplificatori. Il teatro è ancora il luogo di incontro di mondi lontani tra di loro.
Ed io “faccio teatro” perché voglio risplendere la luce di quella scintilla, essere cassa di risonanza di quell’eco, abitante di quel luogo di incontri che stando alla logica non sarebbero possibili. Io “faccio teatro” perché la scintilla che illuminava le maschere sacre del teatro appena nato getta in me tanta luce da permettermi di vedere me stessa ed i volti che ho senza che io lo sappia o riesca ad immaginarlo.  Io “faccio teatro” perché la sua eco purificante si riverbera in me sino a far vibrare corde ignorate volutamente o meno, sconosciute, dimenticate, inutilizzate, azzittite, nella stessa misura in cui riesce a dare un suono nuove alle corde solite, usate, usurate, spezzate, liberandomi così dal peso dei miei tanti silenzi e delle mie troppe parole. Io “faccio teatro” perché esso è il luogo in cui parti di me, forse destinate a non sfiorarsi mai, convergono, si incontrano, convivono tra loro, dando forme a mondi che esistono solo nella misura in cui io credo in ciò che faccio e dico sul palco.
E se poi penso che questi miei volti, questi miei echi, queste mie parti di me parallele ma
convergenti in barba a tutte le leggi e le definizioni della geometria trovano la via di poter oltrepassare le soglie del mio piccolo io ed un’atmosfera che permetta loro non solo di respirare e sopravvivere al di fuori di me, ma anche la possibilità di coesistere, convivere, vivere e nutrirsi di altri volti, altri echi, altri mondi paralleli che emergono nell’ambito del laboratorio, la domanda che mi sorge spontanea è “Perché non farlo, il teatro? Perché non essere teatro?”
Tuttavia, spiegare tutto questo in poche parole è difficile, perciò solitamente quando mi chiedono perché io frequenti il laboratorio teatrale, rispondo sempre che il teatro è arte e “l’arte serve per non morire di realtà” e per non far morire ciò che in noi è vero pur non essendo reale.

di Angela Genovese 24/09/2016

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